La macchia meditarrena di Peschici dopo l'incendio del luglio 2007 (per non dimenticare...)

venerdì 13 aprile 2012

ONDE ANOMALE (silloge di poesie di Gabriele De Cosmo)


  




A mio padre Filippo

A tutti noi
in un modo o nell’altro
colpiti dall’onda







L’ictus




I

L’onda t'investì come un porto d’origami
ed era un morbo secco, scientifico,
materiale e palpabile sulla tua smorfia d’emiparesi,
sulla tua repentina immobilità e il tuo esserci a sprazzi,
bisognoso di continue cure.
I tuoi occhi non vedevano, eppure non avevano più difetti
della tua vecchia presbiopia, la tua vista era valida
e risultava deviata a destra non per un suo limite
ma per via degli arti di sinistra totalmente morti,
che la maligna saccheggiatrice di neuroni voleva negarti alla mente,
(non ti voleva cosciente per non rischiare una tua guarigione…)
Come quando mi dicesti di togliere il mio braccio dalla tua gamba
e quel braccio era il tuo…




II

Ischemia, perfida dea, ti colpì con violenza dopo una gita di mura
in cui, già ignaro, depistavi sul perone inchiodato la sua subdola epifania:
ma io posso dire che ti ebbe come una slavina di pietre;
fu in questa bolsa terra violentata, fluorescente d'assenze,
ebbra di diktat e orientamenti al nulla di chi, a te alieno,
tendeva a salvifiche dottrine, ma nessuno
(profondo e lieve come tu solo sapevi essere)
al magma veridico dei sensi.




III

In questa chimica plaga che da anni più non conoscevi
ti eri dunque fermato, occluso nel gorgo del tuo ultimo, devastante ictus;
eppure eri ancora aspramente vivo non appena riuscivi a salpare
su aligere bolle di coscienza rapite, per un pugno di stimoli,
alle devianti ombre del neglect.[1]




IV

Oggi rammento soltanto il cigolio della tua sedia, mentre le tue mani leggere
cercavano di sfiorare il mio mento barbuto, e intorno l’eco del tuo nome
che volevi macedone...  All’oblio consegno,
in questa campana di vetro senza tempo della mia cecità,
il tuo essermi padre; perché dopo l’insulto abnorme dell’onda,
(normale non pare a coloro che dall’alto d’un gelso
guardano sparire nei flutti gli agonizzanti balconi...)
quel chiamarti “padre” cedette alla tua non ancora sopita realtà di persona
in grado di ergere sulle gambe silenti il tuo nome: e saperti Filippo
era tutto ciò che avevi, quel tuo balbettare “chiamatemi Filippo, amante dei cavalli”
era un ballo di naufraghi riemersi dall’acqua.




V

Dopo il primo annegamento ne seguì un altro e un altro ancora...
Ne facesti le spese anche quando lo schiaffo lungo dell’onda
colpì solo me (la madre degli edemi travestita da cinghialesco ominide,
un uomo deformato dal cinismo del comando, mummificato
da unguenti di vanagloria e piumaggi d’invidia...) Fu allora
che persi contatto col tuo gorgo e perdetti la presa...
Avrei potuto strapparti ancora per un istante alla dea
(che intanto amoreggiava col nostro tronfio nemico).




VI

Andò così. La tarpante medusa, dopo un’ingannevole bassa marea,
ti schiumò le ali sull'assolato ponte d’una sventrata Turrita,
lucumonico borgo che arrembasti da sposo nel mitico sessanta
e che da anni vedevo sfuggirti, cartina tornasole del generale, immondo sviluppo
che induce a una caldera di bisogni. Ci vivevi colla tua ipersensibile Anna
in quel salone divenuto alcova d'eparina e potenti donne d'Africa e d'Asia;
ed io ero là, a tentare di volgere, invano, il nervo riottoso del tuo collo
al mio cocciuto spostarmi sul lato che negavi del mondo,
pur sapendo, in cuor mio, che nei pori m’avevi già presentito. 




VII

Virai più volte nell’acquamarina dei tuoi occhi intrisi di terra,
sull’incatenante fragilità dei tuoi oblò a grumi; m’immersi
nel provvido terrore della tua stasi cremosa di palpiti,
di sensi nuovi (più nuovi dell’alba o del tuo mediterraneo)
e che rimpiango di non aver più a lungo ruminato mentre, timida cervicapra,
mi spaurivo alla piana del tuo rachide muto o quando ero bradipo stordito
dal guizzo inatteso del tuo lemma sparviero. E sapevo
che lento avevi il palato, lento il rosario di labiali fonemi cremati
dal vischioso lager della saliva, ma non la parola che saettavi, chirurgica, nel seme,
fulminea a rigare gli zigomi del tuo attonito figlio
che si palesava al mattino con la fune al collo d’una vita ceduta
a paralisi di torbidi boiardi, superpagati soffiatori di maremoti:
pianeti lontani anni luce da te, dal tuo volto di scogliera,
materie sprofondate nel baratro stellare del movimento;
la velocità, l’energia: ormai, per te, un’effimera, inutile moda…




VIII

E’ ancora forte nelle mie narici l'alcolico disordine ricomposto
dalla sinfonia dei tuoi cigolii di gomma e tosse ab ingestis,
la lichenica musica, benigna, del tuo sorriso dolce come copula di svassi
o la conchiglia della tua fronte-marea così brava a sommergere,
da farmela notare, la grumosa eco della mia angoscia,
così esperta nel confonder le carte a Ischemia, tumefatta deità
che t’avrebbe voluto caparra di morte o acromatico
come il camice d'un medico etereo.




IX

Ladra d’ossigeno, in quel fine maggio lei ti avvolse in un gorgo,
ma fu nella solida grazia che dispensavi generoso
dalla vetta del tuo piagante decubito
e che, leggero, a noi tutti donavi
biascicando vini e molecole della tua farmacia di ricordi. 
Fu proprio lì, nella pudica libertà degli statici
che più forte t'ho amato, Filippo,
e prima che la nera mondina ti strappasse
ho ingoiato, come un vento di spore,
il tuo volo incessante.










Non ho fiumi…



A Gina

Nel tuo viso di lampare ho trovato rifugio
come un pescatore di totani guidato dall’istinto
e dal bianco mulinare della sarda, gigantesca
sotto il pelo dell’acqua; sul tuo corpo di luna
come un gatto smagrito dall’inverno ho puntato la vita
e ho visto la tua luce allungare l’ombra dei miei baffi,
a dismisura… E dalla tua esile voce di torrente
che anguilla s’inarcava sopra una sciabola di muschi
ho attinto dolci orchestre di pace, velate come la canzone
che anche stasera dondola sulle tue labbra; leggera
quanto il gesto delle tue mani che danzano tarante
tra queste rughe di cenere e farina, inaffondabili barche,
ultime prode del mio inquieto strambare…






Onde anomale


Non ho fiumi, né paeselli madidi di storia
o antichi volti dai quali cucire introspezioni;
negli occhi mi danzano paludi e città imbolsite 
preda di dissennati imbonitori del popolo votante,
gente che venderebbe di tutto, persino la madre
(non v’è cosa che non pensino di affidare,
prima o poi, all’avido feticcio dello scambio…)
Tra poco qualcuno ci venderà su qualche sito web
o sulle fiammanti bluse di ricchi calciatori,
noi non lo sapremo che a cose fatte;
non passerà un’altra luna e non solo ineffabili crolli di borse
ma ben altre onde sui porti e alluvioni d’anime s’avvicenderanno,
frane per le quali l’ultima colpa è averne amplificato i danni
costruendo con corrotte mani di ghiaia,
su porose colline di sterco.   






Canto d’un marinaio

Dolce compagna di ricami e deserti!
In un atrio di conchiglia ho sommerso i drappeggi del mio dolore,
perché non voglio cantare, nel tuo nome, il mio corpo in disfatta
o l’anima increspata dal polveroso ghibli dell’indifferenza:
più volte li ho indossati nella mia vita di rugginosa balaustra
ma in un tale crollo di speranze
(in questa governata bolina di naufraghi e miraggi)
stento a fartene vele…





La baia


Non ho fiumi! Non conosco più il loro fremito che pacifica la terra
come i tenui barlumi del tuo volto che si apre al mattino…
Li ho perduti, una notte, in questa baia di fumogeni oltraggi e scempi di umanità
dove non oso dipingere un intimo declivio delle ciglia, antico
come quel mio grido d’amante cui un giorno estirparono
il midollo spinale dei sogni.




Tastiere

Io e il ragazzo ch’ero ieri, straniero in patria,
non ci siamo mai separati, e come potevamo?
Non puoi abbandonare ciò che non s'è mai compiuto
che non ha preso forma e vita separata;
dentro mi vibra ancora la chitarra che attecchiva
spontanea come il caccialepre o l'erba medica,
tra gli echi concavi dell’anima, un vento di viscere
e le dita funambole su tastiere di risacche.




Clandestinità

Scorre nel torace il mio fiume inesistente, vuota crisalide
invasa da imprendibile poiein e folate di coscienza,
lo scheletro incurvato dagli argini melmosi d'una sottile
prigionia; la cella mi fu ricamata sulle scapole alate
dall'edonistica sbornia degli anni della luce
e la complicità d'una fede deviata da un fatuo pragma
(pedagogia del sinallagma così cara ai regimi...) 
Per questo (persino al bar) ho uno scudiero al mio fianco:
si chiama purezza, l’imberbe scrittore che distillava angosce
nel buio tremante della clandestinità.



Progetti

Complice il favore di preti e docenti ostili
all’onirica pulsione della vita
(i governanti si sapeva)
giro e rigiro in discariche di lava,
come un sipario di ombre,
progetti di miseria a lungo termine...




La stasi

Come una donna tribale m’imbalsamo i capelli
con morene di solitudine
e sulla schiena rigida porto un covone di segni,
medusei uncini della vera stasi,
quella dei moti soppressi del sogno,
quando nel petto ti muore un mite soffio ideale
che hai provveduto a scremare
dall’etica perversione degli idealisti…





Ascesi

Sulla fronte reco un graffito da stazione,
ci puoi leggere un paesone gravido di storia
che pare un’astronave senza tempo, avvinghiato
al suo rosso bellaciao ma che ormai è un rosé furbetto
tranne che per la porpora delle poltrone del potere
o per il vermiglio che t’abbaglia da uno strano e sospeso
binario di ferro… Eppure il mio borgo è meno statico
di quanto sembra, persino più ascetico del tuo,
gentile poeta turco e mitteleuropeo!
Nel senso che prima o poi vi troverai
contraendo bene glutei e polpacci
(oltre la clinica e la casa del vescovato)
un respiro di piane mozzafiato. 






Il borgo


Intanto però il borgo vivacchia coi suoi vizi epocali:
incurabile massone, fucina d'impareggiabili bizzoche
troppo spesso pestato nel mortaio del falso progresso
e con quella zoppia nella favella che pare un borbottio
fa il contadino gregario delle più grandi città tecnocrati
che vincono al nord, se non fosse che ormai l’Italia
non vince più da tempo… 
Ma questo mucchio di sparute torri profughe dal tempo
si tiene stretta una speziata universitas
e i cosiddetti stranieri (esuli del libro) sono studenti veri,
per essi la Turrita disegna nuove porte di sole,
la sua cinta muraria è ormai un merletto traforato d’occhi
da cui colano radiose preghiere di continenti.
No, non è ancora un villaggio fantasma
questo dedalo di zigomi!






Etruria

Per ragioni non tutte chiare albergavo tra pareti di codici,
torchi di regole e il cemento arancio del mitico ingegner Severini...
(I miei, forse perché del sud o per una specie di paura,
non ci vollero vivere intorno alla conca bronzea del Rosso,
tra le sette arti dei Pisano e i giardini su San Bevignate)
Poco lontano udivi le smanie d’una città del novecento
ma intimamente etrusco-medievale, madre di moderni tirreni
da due millenni orfani del mare.
(Dicono che i Rasenna giungessero al delta via Tevere,
ma quella era un’altra città  e quello un corso d’acqua
di ben altra portata...)





Versi

E va bene, lo confesso; benché  io non vi sia nato
in questo volumnio borgo, lo amo dal fondo del mio limo viscerale:
se pure i geni mi dicono scintillante aguglia del Mediterraneo,
qui mi son forgiato budella e speranze, qui prendevo coscienza
di quanto fosse eterea la mia libertà e di come questa virasse, il giorno,
in calcarea emarginazione…
Tra le sue mura cacao, i sesti acuti dei sassofoni
e le rotule sbiadite di qualche madonnaro estivo ho scalato, insonne,
i miei versi più estremi.









Il rifugio di Filippo




L’appartenenza

In questa sinfonia di tsunami, nel bigio vetro di questa deriva
sento che nulla appartiene ai miei sensi e alle mie mani,
nulla più mi aderisce, come una vela bagnata, alla schiena…
Non è certo mio il discorso d’un uomo che finge di essere,
ma in realtà vive dentro fetidi giochi di dominio,
tanto meno è mio l’atto che dispensa interessi o la sfera della funzione,
perché non controllo l’istituto, le sue stereotipate classificazioni,
le sue glorie di mercantili gestioni.
Appartengo flebilmente alla vita se nulla posseggo sul serio,
dalla incerta scala dei valori alla delirante teoria degli oggetti,
vivo se solamente stringo nei pugni la speranza di fortuite piogge
sul dilavante deserto della storia.
Non è mia la donna, non mi appartiene il figlio: loro sono preziose rugiade
che devo preservare da questo assediante festival di violenze,
come fossero le mie stesse membra.





Il rifugio di Filippo

Mio padre aveva la mania dei beni rifugio;
ci s’infilava stagionalmente, tra un austerity e l’altra, comprò prima dell’oro
e poi, sfogliando a fondo le sue radici, un ettaro di olivi… Filippo,
con quelle tue giacche americane prese a saldo,
tutte quadretti e variopinta comunicazione, ci sapevi fare coi tempi duri
tu che convincevi orde di medici a comprare molecole
che non fossero solamente un rifugio, ma corpose ipotesi di chimica salvezza…
Oggi dove sono le tane di valore in cui andare a riparare
durante il cataclisma o lo straripamento? Sono crollate le caverne
in cui trovare respiro dalla micidiale insistenza del temporale,
e noi siamo come le capre del pastore apulo-croato di Manaccora… disperse
come cespugli di origano sulle lingue di argilla che l’alluvione disegna
in quelle terre incendiate orfane di pini, lì ogni anno l’acqua divide la gente e gli animali,
allontana i rifugi, disfa l’ultima logica di assestamento.

(Mio padre si è salvato un secolo fa…)



L’albergo

Coltivo, tra il diaframma e l'asfalto, il brusio d’un fiume senza nome,
ricamo di cellulosa nel torrente piroclastico dell'ansia,
generatore di versi e detriti. La mente s'inerpica
sul corpo eroso di recente dall'ombra dei ramarri
e da gessate polveri di spondilitici pontili. Sai quel mare?
Era il bandolo di tutto, di Zancle, del viale San Martino
di donna Pina levatrice, di Nino Rizzo sosia del Principe di Galles,
della giubba rigata di Natale che non si voltava ai semafori
e la scorticatura sulle imposte dell'estinto Hotel Milano,
verdastre come chiglie di lampara. Ah, come mi rubano
al presente i tuoi passi, rauco albergo della memoria!
la tua salsedine di chiostri, il tuo mosaico di lutti in corridoi di fobie…
Con pulci d'acqua e solitudini ricami le mie scapole di latta,
nelle cornee mi fiondi la vita come un Alcantara ghiacciato,
antico eldorado di ventri, e zelante ricomponi chi m’ha nutrito:
una falce di moli, i venusiani anni ottanta e una zolfatara d'amuleti
che mi perdeva, goletta ubriaca, nel maremoto del tempo.





Libertà

Si può, si può, tutto si può… (cantava il nostro signor G)
in questa moderna società della libera espressione,
dal riempirsi di metallo a mandare milioni di messaggi
dal creare comitati per le pietruzze di fiume
a trasmettere in tv l'urlo becero dell'ignoranza...
E' giusto così, laissez-faire è la nostra bandiera occidentale:
dare spazio alle minime o grandi cose di tutti,
se no che democrazia sarebbe se qualcuno,
dopo essersi fatto eleggere dal popolo a suon di bufale,
potesse anche vietare di esprimerci!
Peccato però che in questo brodolone di galassia
non manchino veleni per chi s’indigna un po’ troppo
contro i nuovi burattinai di turno
e contro le mai morte atrocità del mercato
che dopo aver più volte affondato se stesso
continua, liberamente, a farci suoi schiavi!



Indice

p.         L'ictus

p.  3     I         L’onda t'investì…
            II       Ischemia, perfida dea…
III      In questa chimica plaga...
IV      Oggi rammento soltanto…
V       Dopo il primo annegamento...
VI     Andò così. La tarpante medusa…
VII    Virai più volte nell’acquamarina…
VIII  E’ ancora forte nelle mie narici…
IX     Ladra d’ossigeno, in quel fine maggio…

Non ho fiumi!  

A Gina
Onde anomale
Canto d’un marinaio
La baia
Tastiere
Clandestinità
Progetti
La stasi
Ascesi
Il borgo
Etruria
Versi

Il rifugio di Filippo
           
            L’appartenenza
Il rifugio di Filippo
L’albergo
Libertà
           


[1] Con la parola neglect (dall’inglese: incuria, negligenza) si definisce in neurologia la sindrome in cui i malati colpiti da ictus hanno serie difficoltà ad esplorare lo spazio collaterale opposto all’emisfero cerebrale (normalmente il destro) nel quale è avvenuta la lesione e non sono consapevoli degli stimoli presenti in quella parte di spazio. Seppi che di solito, come avvenne per mio padre, si associa all’anosognosia, cioè alla negazione della propria condizione di malato.  (n. d. a)